Quando si parla di stress, la mente corre subito a immagini di pressione, sovraccarico e fatica. Ma la scienza ci ricorda che non tutto lo stress è dannoso: in certi casi può persino attivare, motivare e far crescere.
La vera sfida non è eliminare lo stress, ma capire come funziona e quando può essere positivo.
Le due facce dello stress: eustress e distress
La distinzione tra forme di stress “buone” e “cattive” risale alle prime ricerche di Hans Selye (1956), il padre del concetto moderno di stress. Secondo Selye, lo stress è la risposta fisiologica e psicologica del corpo a una richiesta. In sé, non è né buono né cattivo: è una reazione.
La chiave sta in come percepiamo e interpretiamo lo stimolo. Quando viviamo una situazione come una sfida stimolante, che ci attiva ma non ci sopraffà, parliamo di eustress (dal greco eu, “buono”).
Al contrario, quando lo stress ci blocca, ci sovrasta o ci logora, siamo di fronte al distress, lo stress negativo.
Il ruolo centrale della percezione
Una stessa situazione può generare reazioni opposte in persone diverse. Ciò che fa la differenza non è tanto la natura dello stimolo, ma la nostra valutazione soggettiva:
- abbiamo risorse sufficienti per affrontarlo?
- ci sentiamo in controllo?
- vediamo un significato personale in ciò che stiamo facendo?
Se rispondiamo sì, è più probabile che la nostra esperienza rientri nell’ambito dell’eustress: stimolante, ma gestibile.
Al contrario, quando manca il senso, non vediamo soluzioni, o ci sentiamo inadeguati, lo stress diventa tossico.
Tre fattori fondamentali influenzano questa valutazione:
- Controllo percepito: più sentiamo di avere potere d’azione, più è probabile che viviamo lo stress in chiave positiva (Karasek, 1979).
- Senso e significato: gli individui tollerano meglio la fatica se vedono un fine coerente con i propri valori (Antonovsky, 1987).
- Supporto sociale: la presenza di relazioni fiduciarie riduce l’impatto negativo dello stress (Cobb, 1976).
La confusione sullo “stress ottimale”
Nel linguaggio manageriale, è ancora molto diffusa l’idea che “un po’ di stress faccia bene”, e che ci sia un “livello ottimale” da raggiungere per massimizzare la performance.
Questa idea si basa spesso su un’interpretazione troppo semplicistica della legge di Yerkes-Dodson (1908), secondo cui la performance cresce con l’attivazione, ma solo fino a un certo punto.
Tuttavia, questa teoria:
- è nata in laboratorio con animali, non in contesti organizzativi umani;
- non distingue tra tipi diversi di stress;
- non considera la soggettività individuale.
In realtà, non è lo “stress” a farci performare meglio, ma l’attivazione positiva che deriva da una sfida sentita come gestibile, significativa e motivante.
Gli effetti dell’eustress
Diversi studi hanno evidenziato i benefici dell’eustress nei contesti di lavoro:
- migliora il coinvolgimento emotivo (Simmons & Nelson, 2001);
- rafforza la resilienza e il senso di autoefficacia (Lazarus & Folkman, 1984);
- stimola l’apprendimento e l’adozione di nuove strategie;
- aumenta la probabilità di vivere emozioni positive anche in presenza di sfide (Folkman & Moskowitz, 2000).
Non si tratta solo di “sentirsi meglio”: l’eustress, quando sostenuto da contesti favorevoli, può davvero incidere su performance, creatività e benessere psicologico.
Gli errori da evitare in azienda
Molte organizzazioni, ancora oggi, cercano di “stimolare” i team generando pressione, urgenza e competitività. Ma usare lo stress come leva gestionale è un errore.
Ecco perché:
- non si può sapere in anticipo come una persona interpreterà lo stimolo;
- ciò che attiva qualcuno, può bloccare qualcun altro;
- lo stress negativo ha costi altissimi, in termini di turnover, malattia e disaffezione (ILO, 2003).
Al contrario, le aziende dovrebbero concentrarsi su come favorire le condizioni per generare eustress, ossia:
- definire obiettivi chiari e realistici;
- offrire supporto e feedback costruttivo;
- garantire autonomia e senso di padronanza;
- creare ambienti in cui si può sbagliare senza paura.
Misurare ciò che conta davvero
Se vogliamo trasformare lo stress da ostacolo a risorsa, dobbiamo iniziare a misurarlo in modo scientifico.
Non basta un questionario sul carico di lavoro: serve capire come le persone vivono e interpretano le sfide quotidiane.
Con le giuste tecnologie, oggi è possibile:
- rilevare la percezione di controllo e autonomia;
- monitorare il fit tra persona e contesto;
- identificare segnali precoci di distress;
- progettare interventi personalizzati, basati su dati reali.
Soluzioni di people analytics e strumenti di indagine validati scientificamente, come quelli sviluppati da Umana-Analytics, permettono di trasformare l’ascolto delle persone in strategia organizzativa.
Perché non si può migliorare ciò che non si misura.
Lo stress è un fenomeno complesso, ma non inevitabilmente dannoso. La differenza tra eustress e distress non sta nello stimolo in sé, ma nell’interpretazione soggettiva, nelle risorse disponibili e nel contesto in cui si opera.
Le organizzazioni che sapranno creare ambienti capaci di sostenere l’eustress e riconoscere tempestivamente il distress saranno quelle in grado di generare valore duraturo: per le persone e per il business.
Riferimenti:
- Antonovsky, A. (1987). Unraveling the mystery of health: How people manage stress and stay well. Jossey-Bass.
- Cobb, S. (1976). Social support as a moderator of life stress. Psychosomatic medicine, 38(5), 300-314. https://doi.org/10.1097/00006842-197609000-00003
- Folkman, S., & Moskowitz, J. T. (2000). Positive affect and the other side of coping. American Psychologist, 55(6), 647–654. https://doi.org/10.1037/0003-066X.55.6.647
- International Labour Organization (ILO). (1997). Workplace stress: A collective challenge.
- Karasek, R. A. (1979). Job Demands, Job Decision Latitude, and Mental Strain: Implications for Job Redesign. Administrative Science Quarterly, 24(2), 285–308. https://doi.org/10.2307/2392498
- ILO. (2003). Safety in numbers: Pointers for a global safety culture at work.
- Lazarus, R. S., & Folkman, S. (1984). Stress, appraisal, and coping. Springer publishing company.
- Selye, H. (1956). The stress of life. McGraw-Hill
- Simmons, B. L., & Nelson, D. L. (2001). Eustress at work: the relationship between hope and health in hospital nurses. Health care management review, 26(4), 7–18. https://doi.org/10.1097/00004010-200110000-00002
- Yerkes, R.M., & Dodson, J.D. (1908). The Relation of Strength of Stimulus to Rapidity of Habit Formation. Journal of Comparative Neurology & Psychology, 18, 459–482. https://doi.org/10.1002/cne.920180503